La FUGA

 

Piove.  L’un dietro l’altro si susseguono da ore i temporali, all’apparenza estivi, eppure siamo d’Ottobre. Dagli spiragli delle finestre il baluginare azzurrino dei lampi precede il boato che squasserà, per lunghi attimi, lo scrosciare violento della pioggia. La doppietta è smontata sul tavolo, ne asciugo le canne, la cacciatora e lo zaino, appesi, gocciolano ancora. Pare che s’acquieti, riprende borbottando rabbioso, come in preda ad un sordido risentimento, quasi a volersi sfogare per un torto subito.

“L’è ùl diavùl che’l pica la dona” ci dicevano i nonni per tenerci, col timore, tranquilli.Ma io so....


Ora che dallo spazio l’uomo spia anche ciò che il cielo ci riserva, più aspro è il conflitto tra passione e ragione, scegliere di seguire il raziocinio o la pulsione. Due pesi, due misure, un uomo nel mezzo.

Intense precipitazioni a carattere temporalesco.

Artù, Fast, una doppietta, 9 cartucce e la voglia, da mesi repressa, d’inebriarmi con loro di spazi senz’ altri confini che le creste scolpite nel cielo.
 


Ero partito il giorno avanti, mentre una nuvolaglia sparsa dilagava incerta nella bassa, una pietra pesa sull’animo altrimenti traboccante di gioia. Ma in valle il cielo era terso. Lungo il sentiero che accompagna il divallare gorgogliante e  sinuoso dell’Artogna, un’arietta frizzantina rinfrescava, fors’anche esagerando, il sudore sul collo. Ero salito senza fretta, senz’altro pensiero che d’arrivare prima di sera per prepararmi alla notte con calma. Vi giunsi che il  pomeriggio era ancora a mezzo e mi parve che le baitine m’accogliessero, nella loro dignitosa umiltà, come un vecchio amico lungamente atteso, incuranti di quel pescatore solitario che di buon passo ritornava al piano. Dal fondo  valle una nebbia densa, compatta, risaliva viscida i fianchi delle montagne stringendo già  d’assedio le cime più basse, invadendo le conche, sfilacciandosi sui picchi rocciosi. Altre nubi, sparse, fumigavano sui paglioni scoscesi, scivolando verso l’alto, per riunirsi in pattuglie e dare l’assalto al cielo. Limpidi specchi azzurri resistevano ancora. Eh no cazzo ! Non mi freghi così! Avevo sistemato in fretta la legna raccolta lungo il cammino,  preparato il giaciglio e la tavola, su cui tanti avevano desinato in estate ma pochi pulito, afferrata la doppietta, camerato due cartucce e via, oltre il torrente, su per il costone prospiciente l’alpeggio da cui spesso, arrivando al Campo in tarda ora, mi era giunto, sussurrato, il loro saluto rugolato a suggerire struggimenti d’animo ed indefinibili melanconie. Sù, aggrappato ai rododendri, per canalini ombrosi incorniciati dai dross, “toccando” larici solitari già tinti di  gialle fiammate,  fino a guadagnare le balze di più ampio respiro, verso il crinale, attraversando rosse macchie di mirtilli e sfasciumi di rocce di antiche convulsioni, ora dormienti tra coltri di magri rododendri. Su un ristretto pulpito coperto di mirtilli, che con breve salto divalla su un terrazzo sospeso su un’ ampia conca, avevo trovato Artù rapito da un effluvio che l’aria gli recava dal basso. Il giovane, pochi metri sopra, acconsentiva partecipe. Mi ero avvicinato lentamente, fino ad affacciarmi, sporgendomi, sul terrazzo. Il gallo sbocciò dall’erba tra i dross sottostanti, distendendosi, dopo breve rincorsa, in volo planato, bello nella sua nera livrea di bianco screziata, le vermiglie carruncole al lato del capo, la coda a forcella. Ruzzolò, prima di giungere al ciglio, tra i rododendri che nascondevano un buco tra i massi, e lì ristette, agitando lungamente le ali, finché giunse Artù.

La notte aveva iniziato a piovere. Gocce pesanti battevano sparse, asincrone, sulle piode del baitino, esitavano un poco, un brusio fitto e continuo ne prendeva il posto fondendosi con quello, più profondo e lontano, del torrente. Alle 5:30 le nuvole avvolgevano ogni cosa, non si vedeva ad un passo, piovigginava. La pancia piena rende l’uomo incline alla pigrizia. Ristetti in attesa che schiarisse, consumando gli ultimi legni in uno stento focherello che neppure riusciva a proiettare le tremule ombre sulle pareti discoste. Eppure quelle poche silenziose braci sembravano emanare tutto il calore di un’umanità, ormai perduta, che in quei luoghi, per generazioni, han consumata l’esistenza estiva. S’ha d’ andare! Fuori, nelle nuvole, quasi a tentoni, per i pascoli antistanti, a trovare il sentiero che si snoda incerto, tra le tracce degli armenti, fino alla balza sotto all’ Erta, l’ultimo strappo che porta ai piedi dei paglioni. Ora piove deciso. Do il via ai cani e attacco la ripida china. Uno sparo, poco più avanti, seguito da una serrata coppiola ed il canto delle cotorne che mi sorvolano nella nebbia. Il sapore amaro della beffa. Ho dormito a mezz’ora dai cotorni e mi son fatto precedere dai valligiani che son saliti dalle baite basse. Li sento parlottare e capisco che non han fatto danni, han riconosciuto i miei cani accorsi sulle calde. Scelgo una direzione diversa allontanandomi. D’un tratto la nebbia pare sparire. Tutte le nuvole, ammassate, s’alzano come aspirate dal cielo, ristanno immobili per qualche istante, raggricciate, una volta di cristallo opaco, e pare che tutto il creato si sia fermato, come tenesse il fiato. E’ un attimo, ed il cielo cade sbriciolandosi in infiniti minuti frammenti di ghiaccio che precipitando rimbalzano su ogni cosa,  sinistro baluginare bianco dal brusio che spegne ogni suono, centinaia di spilli sulle pelle nuda, le mani aggrappate al fucile, il viso inutilmente coperto dal capo chino. In pochi istanti la montagna ne è coperta, meglio togliersi dal brutto in cui, per lasciar campo agli altri, mi son ficcato, e alla svelta. E allora via, traversando sopra paurosi salti, giù per canalini erbosi ad aggirare le pareti rocciose, imprecando ai cani che ancor non si danno per vinti, assecondando il divallare delle balze più dolci, verso un fondo che non si intravede, sconvolto nel vorticoso turbinio che tutto confonde. Solo il torrente, là in basso, pare alzare la voce per fare da guida, dare richiamo. Giungo, senza rendermene conto, direttamente all’alpe Campo; raggelo, realizzando solo ora, da dove son passato.

Nel baitino raccatto le mie cose, che san del fumo di una notte di bivacco, le ficco alla meglio nello zaino, il tempo di una foto sull’uscio e via di corsa, che il cielo mi pressa da vicino, urlandomi sulla testa tutta la sua rabbia, imprecando  per lo scherzo d’averlo d’anticipo giocato.

Piove a dirotto. I fulmini cadono più sotto, sulla giavina ed ancor più bassi verso l’alpe Canvaccia, forse attratti dai massi ferrosi, ed il pensiero dell’ acciaio che ho sulle spalle mi mette angosciosa premura. Via, via, giù lungo il sentiero ormai trasformato in ruscello, mentre i rigagnoli, quasi un lacrimare di gocce dalla roccia d’estate, spesso solo percepite dal sommesso gorgogliare nascosto tra le pietre,  rovinano ora gonfi verso valle trascinando ciotoli e fango e si passan solo saltando di masso in masso sulle punte affioranti. Ma v’è da stare attenti, che le pietre son viscide, come avesse lasciato la bava un esercito di lumache, ed il sentiero corre per lunghi tratti a precipizio sul letto dell’Artogna. Ne è di monito la lapide del Dalessio, cacciatore pure lui, conosciuto una sera che giunse a buio in Alpe Campo e per il quale non dimentico mai, passando, una preghiera, finito di sotto un fine inverno di pochi anni fa, mentre saliva la sera innanzi ai censimenti dei camosci, e v’è da sperare che la morte, aprendo su di lui le nere ali, se lo sia preso d’un colpo solo, che lo trovarono riverso sul greto quasi due giorni dopo. Questo ed altri pensieri ti corrono per la testa quando l’animo è sgomento ed il tuo orgoglio d’uomo strattonato e scosso dagli elementi come una vecchia giacca dimentica su un pruno. Allora ti fai piccolo piccolo ed accetti rassegnato anche lo schiaffo gelido delle cascatelle che, ora prepotenti, ricadono con slancio vigoroso sul sentiero, e non v’è sufficiente spazio per evitarle. Il bosco. Spero, tra le fronde di trovare un po’ di riparo ed invece le gocce si fan, sì più rare, ma più pesanti, e ti colpiscono con forza che sembrano volerti bucare. Ne sento l’impatto sulla giacca, ormai zuppa, il freddo penetrare, fondersi con l’altre, raccogliersi fondendo col sudore  e lentamente colare sulla pelle. Saran tre ore che scendo ormai. Ad una curva, improvviso, mi investe l’urlo senza fiato, scrosciante, dell’Artogna che, infilato un budello scanalato nella viva roccia,  si getta con gran salto in un catino : “La cascata del Tinaccio! Ci siamo!”. Un paio di curve ancora ed ecco, tra le fronde dei faggi, apparire più in basso le piode dei  primi tetti. Anche questa è passata. S’apre nel cielo uno spiraglio, come una falce d’azzurro, pare un luminoso sorriso, beffardo, subito si chiude e riprende a ringhiare.

 

 

 


Lirurus Tetrix

 

Ritorno a STORIE e TESTI